Categoria: Diretto penale
OPERAZIONE IMPONIMENTO: LIBERI TUTTI I BENI DI COSMANO FRANCESCO
Il Tribunale del Riesame di Catanzaro, in accoglimento delle argomentazioni dei difensori di Cosmano Francesco (avvocati Antonio Zoccali, Giovanni Vecchio e Bruno Vallelunga) ha disposto il dissequestro di tutti i beni intestati a Cosmano Francesco.
Cosmano Francesco è indagato a piede libero per i reati di ricettazione, riciclaggio e favoreggiamento personale aggravati dall’agevolazione mafiosa in quanto commessi al fine di favorire le attività della “cosca Anello-Fruci”, presunta organizzazione mafiosa operante nella Provincia di Vibo Valentia e nel territorio lametino.
In particolare, oltre a tutti i beni personali dell’indagato e del suo nucleo familiare, il G.I.P. presso il Tribunale di Catanzaro aveva disposto il sequestro dell’impresa mediante cui il sig. Cosmano esercita la sua attività di rivenditore di autovetture. La difesa dell’indagato, anche mediante l’ausilio di una consulenza tecnica, ha dimostrato la capacità reddituale del nucleo familiare dell’indagato superando così la valutazione investigativa sulla sproporzionatezza reddituale e la liceità delle risorse economiche con cui erano stati acquistati i beni posti in sequestro.
Il Tribunale del Riesame, accogliendo l’istanza difensiva, ha così disposto la restituzione di tutti i beni all’indagato.
IL VIRUS UCCIDE LA GIUSTIZIA
Il Coronavirus ha portato cambiamenti profondi nella vita personale e professionale di ognuno di noi. Io, da ormai veterano avvocato penalista, mi trovo oggi ad assistere alla introduzione, proposta dal Governo, dei commi 12 bis, ter e quater all’art. 83 del D.L. n. 18/20. Con tali norme si demanda ai giudici, senza il previo consenso dei difensori, la possibilità di decidere che il processo si svolga “da remoto”, ossia tramite applicativi come Skipe e Teams, prodotti commerciali assolutamente inidonei a garantire sicurezza e protezione dei dati (sensibili) del processo. Senza soffermarsi su dettagli tecnici e giuridici, si tratta, in parole povere, di smaterializzare l’udienza e la Camera di Consiglio dei giudici. Orbene, se contrariamente a quanto è avvenuto ormai da anni in ambito civile, il processo penale telematico non è stato introdotto, c’è una ragione chiara e incontestabile. L’eliminazione del luogo fisico di udienza e della presenza fisica dei soggetti del processo mina irreparabilmente le fondamenta del processo penale, ovvero il diritto di difesa e il contraddittorio, che presuppongono l’oralità e l’immediatezza dell’accertamento giudiziale. Gli avvocati penalisti italiani sono consapevoli dell’eccezionalità del momento e dell’esigenza di conciliare la tutela della salute con il funzionamento della Giustizia e pertanto, tramite l’Unione delle Camere Penali Italiane, hanno offerto al Governo la massima collaborazione, in modo costruttivo e propositivo. Gli avvocati penalisti sono ovviamente favorevoli, per esempio, ad ogni forma di semplificazione per quanto attiene alle comunicazioni (tramite l’utilizzo della PEC) e alla disponibilità degli atti di causa. Al contempo, gli avvocati penalisti sono contrari al processo da remoto, ritenendo che tale modalità di svolgimento dell’udienza, della Camera di Consiglio e ancor di più degli atti di indagine, sia pericolosa per uno Stato di Diritto. I principi e le garanzie contenuti nella nostra Carta Costituzionale non possono essere derogati o sospesi neanche a fronte dell’emergenza causata da una pandemia, che, comunque, in alcun caso può costituire occasione per modifiche riguardanti una materia così delicata, quale indubbiamente è quella del processo penale. Ogni modifica riguardante questo settore non può prescindere da un attentissimo vaglio da parte di giuristi veri, prudenza, ponderazione ed un iter legislativo che non si può effettuare con un decreto. Purtroppo, invece, siamo oramai quasi quotidianamente sommersi da provvedimenti fiume estemporanei riguardanti le materie più disparate, tra cui anche il processo penale, appunto. Tali provvedimenti denotano nella migliore delle ipotesi preoccupante incompetenza e, nella peggiore delle ipotesi, un’allarme per la democrazia; anche per il timore che ciò che viene fatto in un momento di emergenza diventi poi permanente. Ciò non può essere consentito! Solo chi non ha la minima esperienza del processo penale può ritenere che una udienza che si svolga attraverso lo schermo di un computer possa sostituire la partecipazione fisica dei soggetti e possa attuare quei meccanismi sofisticati di osservazione, valutazione e intervento. Il processo penale è connotato dalla dialettica, dal contraddittorio, dall’immediatezza e ciò non può avvenire attraverso un monitor, in assenza di quel luogo fisico che è l’aula di udienza in cui si trovano tutti i soggetti del processo. Nei giorni scorsi ho vissuto in prima persona l’esperienza di una udienza da remoto. Ognuno dei partecipanti era distante centinaia di chilometri dall’altro. Ho pensato che fosse indubbiamente una enorme comodità e un grande risparmio, anche in termini di tempo, partecipare ad una udienza stando comodamente seduti alla scrivania del proprio studio. Ma se questa modalità di svolgimento del processo da una parte accorcia, anzi elimina alcune distanze, al contempo, paradossalmente, ne crea altre immense e incolmabili, rendendo addirittura evanescente il ruolo di coloro che vi partecipano: non solo il ruolo dell’imputato e dell’avvocato, ma anche quello del giudice. Quelli che esprimo non sono preconcetti o remore di chi dopo molti anni di professione non è propenso ad accettare il cambiamento, bensì questioni di fondamentale rilievo che impongono una seria riflessione. Mi tornano alla mente le parole di Rocco Livatino, grande magistrato, il quale disse che affinché un giudizio sia giusto occorre che il giudice sia “disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”. Si può immaginare che una tale comprensione possa avvenire attraverso uno schermo? A mio sommesso avviso non è possibile. Perciò, una volta terminata l’udienza da remoto, ho avuto la consapevolezza della fine del processo penale che ho conosciuto nel corso dei 36 anni in cui ho portato la toga sulle spalle con orgoglio. Inoltre, per la prima volta da quando esercito questa professione, mi sono sentito come un soggetto passivo dell’udienza. Tanto per rendere l’idea: basta che il giudice schiacci un tasto e l’avvocato viene zittito od oscurato. Così, in sostanza, si svilisce del tutto il ruolo del difensore, che invece è assolutamente essenziale affinché possano trovare applicazione le garanzie costituzionali. In sintesi, dunque, questa riforma non solo decreta la fine del processo penale, ma è la spallata decisiva per distruggere una professione che inopinatamente viene ogni giorno sempre più sminuita e vilipesa. Ed è triste e preoccupante che i più oramai non comprendano l’enorme importanza dell’avvocato penalista, che è considerato quasi come un intralcio alla giustizia, un ostacolo alla condanna; mentre, invece, è un vero e proprio baluardo della democrazia. E specialmente in periodi eccezionali come quelli che stiamo vivendo, durante i quali in nome dell’emergenza si limitano per decreto diritti costituzionali mentre il Parlamento tace, il ruolo di garanzia e anche di controllore dell’avvocato diventa ancora più importante. Non dobbiamo commettere l’errore fatale di dimenticare che sono occorsi centinaia di anni e molte battaglie per la conquista di tanti diritti fondamentali della persona, come ad esempio il diritto al giusto processo, dei quali a noi oggi sembra assolutamente normale godere. E dobbiamo avere chiaro in mente che per cancellare quei diritti basta soltanto un attimo!
Avv. Giovanni Vecchio
‘Ndrangheta, annullati gli arresti «Difetto di motivazione»: la Cassazione accoglie i ricorsi di Miglioranzi e Vallone
“RINASCITA – SCOTT” ISOLABELLA FRANCESCO AI DOMICILIARI – IL TRIBUNALE DEL RIESAME DI CATANZARO ACCOGLIE LA RICHIESTA DEI LEGALI DI FIDUCIA DELL’INDAGATO
EMERGENZA CORONAVIRUS: DETENZIONE DOMICILIARE PER VENTRICI FRANCESCO
Il Magistrato di sorveglianza di Reggio Calabria ha disposto, in via provvisoria, il differimento dell’esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare per Ventrici Francesco a causa dell’emergenza dovuta al Covid-19. Accolti, in tal senso, i rilievi difensivi dell’avv. Giovanni Vecchio e Mirna Raschi.
In particolare, si era segnalata la situazione di comorbidità complessa che affligge il detenuto – affetto da plurime patologie croniche tra cui talune che colpiscono l’apparato respiratorio – che avrebbero, nell’ipotesi di contagio da Covid-19, messo in serio rischio la vita dello stesso. Rilievi, come si diceva, condivisi dalla stessa area sanitaria del carcere che ha ravvisato una situazione di incompatibilità del Ventrici con la detenzione per tutto il periodo dell’emergenza sanitaria. Il Magistrato di sorveglianza di Reggio Calabria ha così adottato un provvedimento interinale che differisce l’esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare.
Ventrici Francesco era detenuto nel carcere di Reggio Calabria in esecuzione pena, atteso che lo stesso risulta destinatario di numerose sentenza di condanna.
Il Ventrici viene ritenuto dagli inquirenti come uno dei massimi importatori in Europa di cocaina dal Sud America. Il suo nome è salito agli altari della cronaca nazionale, quale socio del broker della cocaina Vincenzo Barbieri (ucciso a San Calogero nel marzo 2011), a seguito della storica operazione “Decollo” (2004) condotta dalla DDA di Catanzaro contro il narcotraffico internazionale di cocaina dove ha riportato una condanna ad anni 12 di reclusione.
Scontata la pena, il Ventrici si era trasferito nel bolognese ma le sue disavventure giudiziarie non si erano esaurite. Proprio a Bologna è stato condannato in via definitiva per intestazione fittizia di beni nel procedimento nato dall’operazione “Golden Jail” (anni 3 e mesi 9 di reclusione) e, nel processo “Pigna d’oro”, sempre per narcotraffico (anni 15 e mesi 8 di reclusione). Sempre a Bologna è, invece, pendente il procedimento “Due Torri connection” nell’ambito del quale Ventrici Francesco è stato condannato in primo grado a 26 anni di reclusione per aver tentato di importare in Italia 1.500 chili di cocaina con un aereo che doveva partire dal Sudamerica.
Il trasferimento fuori dalla Calabria, inoltre, non ha impedito che il Ventrici fosse coinvolto in vicende processuali su questo territorio. Lo stesso è stato definitivamente condannato per due distinte vicende giudiziarie scaturite dall’operazione “Decollo ter” condotta dalla DDA di Catanzaro. Da ultimo, Ventrici Francesco è stato condannato, sia pure a una pena quasi dimezzata rispetto al primo grado (anni 11 e mesi 1 di reclusione in luogo dei 20 inflitti nel precedente grado di giudizio), dalla Corte d’Appello di Catanzaro anche nell’ambito dell’operazione “Stammer” sempre per narcotraffico.
La decisione del Magistrato di sorveglianza di Reggio Calabria – che si pone in continuità con le determinazioni di altre A.G. competenti per i procedimenti ancora pendenti del Ventrici adottate prima dello scoppio della pandemia dovuta al Coronavirus – consentirà al detenuto di espiare la pena, nel proprio domicilio.
Il Coronavirus rischia di uccidere anche la giustizia
Torna in libertà Rullo Angelo
La Seconda Sezione Penale della Corte d’Appello di Reggio Calabria, in accoglimento di un’istanza presentata dagli avvocati Giovanni Vecchio e Sandro D’Agostino ha rimesso in libertà Rullo Angelo, soggetto ritenuto partecipe del “locale” di Frauenfeld condannato dal Tribunale di Locri, in primo grado, alla pena di anni 12 di reclusione.
La decisione della Corte territoriale arriva dopo la sentenza di annullamento senza rinvio pronunciata, lo scorso 29 novembre, dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione con riferimento ai coimputati Nesci Antonio e Raffaele Albanese, che sono stati assolti perché il fatto non sussiste.
Rullo Angelo, al pari degli altri imputati, era stato tratto in arresto a seguito dell’ordinanza del 12.11.2014 emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Reggio Calabria, che gli ha applicato la più grave misura inframuraria in quanto gravemente indiziato in ordine alla commissione del delitto previsto e punito dall’art. 416 bis c.p.
I giudici di secondo grado, su parere favorevole della Procura Generale, pur senza prendere posizione in ordine al requisito della capacità di intimidazione in territorio elvetico del presunto sodalizio mafioso, ha ritenuto non più sussistenti le originarie esigenze cautelari e questo avuto riguardo al fatto che, oltre all’assoluzione dei coimputati Nesci e Albanese decretata dalla Corte di Cassazione, altra Sezione della Corte d’Appello di Reggio Calabria, avesse rimesso in libertà i coimputati del Rullo giudicati in primo grado con rito abbreviato e dunque ricorreva anche un’esigenza di parità di trattamento con gli altri imputati che rispondono del medesimo addebito a piede libero.
A piede libero, dunque, Rullo Angelo aspetterà la decisione del giudizio d’appello.
Frauenfeld, “non era mafia” Una clamorosa sentenza della Corte di Cassazione annulla le condanne di due presunti boss
‘NDRANGHETA IN SVIZZERA: PER LA CASSAZIONE NON È MAFIA
La Prima Sezione della Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso presentato dagli avvocati Giovanni Vecchio e Bruno Vallelunga, difensori di Albanese Raffaele, e dall’avvocato Emanuele Genovese, difensore di Nesci Antonio, ha annullato senza rinvio perché il fatto non sussiste la sentenza con cui la Corte d’Appello di Reggio Calabria aveva condannato gli imputati in quanto ritenuti partecipi, nella rispettiva posizione qualificata di “capo società” e “mastro disponente”, del “locale” di Frauenfeld in Svizzera.
Viene così messa la parola fine a una vicenda processuale articolata che ha destato scalpore ben al di là dei confini nazionali e della cittadina vibonese di Fabrizia dalla quale i soggetti coinvolti erano originari.
Un’indagine condotta dalla D.D.A. di Reggio Calabria nel 2014 con l’ausilio delle forze dell’ordine elvetiche che aveva permesso d’individuare e sradicare le articolazioni straniere (in Svizzera e in Germania) del “locale” di Fabrizia le quali erano direttamente collegate al “Crimine” della Provincia di Reggio Calabria. Suscitarono particolare interesse nei media nazionali elvetici, in particolare, le riunioni videoregistrate dei soggetti in cui venivano riprodotti, a migliaia di chilometri di distanza, i riti e le formule che sono propri della ‘ndrangheta reggina.
Sul piano giuridico, poi, si tratta di una questione che ha determinato un notevole interesse e che è stata molto dibattuta. Proprio in questo giudizio, infatti, vi erano state due distinte ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite (la prima nel 2015 e la seconda nello scorso mese di marzo 2019) tese alla soluzione di un contrasto interpretativo a proposito delle diramazioni estere della ‘ndrangheta; in particolare, si trattava di chiarire se fosse configurabile il reato di cui all’art. 416 bis c.p. con riguardo a una articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione “madre”, anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emergesse la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento.
In entrambi i casi, tuttavia, vi era stato un provvedimento di restituzione degli atti alla Sezione remittente da parte del Primo Presidente della Cassazione che aveva riscontrato, diversamente da quanto sostenuto nelle ordinanze di rimessione, un panorama giurisprudenziale consolidato nel richiedere, ai fini della configurabilità di un’associazione di tipo mafioso, la prova di un’effettiva capacità intimidatrice del sodalizio criminale da cui derivino le condizioni di assoggettamento ed omertà di quanti vengano con esso effettivamente in contatto e che pertanto, con riferimento all’articolazione territoriale del sodalizio mafioso costituita fuori dal territorio di origine, si richiedeva la dimostrazione della concreta manifestazione del metodo mafioso nel territorio di riferimento.
Si arriva così all’udienza odierna in cui l’avvocato Vecchio, muovendo proprio dal provvedimento ricognitivo del vertice della Cassazione, ha articolato il suo intervento conclusivo stigmatizzando la peculiarità di un’organizzazione mafiosa che si caratterizzerebbe, nonostante un’operatività ultradecennale, per la mancanza di atti di violenza o minaccia o di reati fine, per l’inesistenza di attività economiche (lecite o illecite) riconducibili all’organizzazione, nonché per il totale disinteresse rispetto alle consultazioni elettorali. In definitiva, si è lamentata proprio l’assenza di quegli scopi normativamente previsti dal terzo comma dell’art. 416 bis c.p.
Una tesi condivisa dalla Corte di legittimità che, come si diceva, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna disponendo l’immediata scarcerazione dei due imputati.
Al di là della cronaca giudiziaria che ha portato le principali testate giornalistiche elvetiche e tedesche a recarsi in Calabria per assistere ai processi e per intervistare le parti, la decisione della Prima Sezione della Cassazione va a scrivere la parola fine a una problematica giuridica di assoluto rilievo, che ha dato la stura a un articolato dibattito nella materia.
Si registra il commento difensivo della difesa del sig. Albanese affidato anche ai media svizzeri: “oggi si è scritta una sentenza storica perché si è certificato quanto sostenuto dalla difesa fin dalla fase delle indagini preliminari: l’organizzazione svizzera non è un’associazione mafiosa; non lo è perché non ricorre alcuno dei parametri normativi che sono richiesti dall’art. 416 bis c.p., non lo è perché, in ultima analisi, la società civile svizzera non ha mai percepito l’esistenza di una presenza mafiosa”.
La decisione della Suprema Corte produrrà i suoi effetti ben oltre il processo che si è definito con la scarcerazione – a fronte di oltre cinque anni di custodia cautelare – dei due imputati poiché i suoi effetti si andranno a riverberare su molti dei processi che investono le diramazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia e anche all’estero.
In termini ancor più sistematici – osservano ancora i difensori – si tratta di una decisione che, con ogni evidenza, non esaurisce i suoi effetti nella tematica della mafia all’estero, poiché si è accolta un’impostazione difensiva che investe la tematica della qualificazione stessa del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. che, diversamente da una tradizione giurisprudenziale ormai superata, non può più essere definito come un reato associativo “puro” ma, piuttosto, deve essere considerato un reato a struttura mista sicché, per la sua ricorrenza, non è più sufficiente il dato della costituzione di un’organizzazione illecita che si limiti a programmare un’attività caratterizzata da metodologia mafiosa, ma è indispensabile che si sia concretamente prodotto un effetto intimidatorio.
https://catanzaro.gazzettadelsud.it/articoli/cronaca/2019/11/29/ndrangheta-in-svizzera-la-cassazione-annulla-la-condanna-del-presunto-boss-nesci-c787cae9-4ee0-4ed3-9d9d-89cdc36ea199/
Autobomba a Limbadi, accusa di omicidio archiviata per Lucia Di Grillo
https://www.zoom24.it/2019/11/19/bomba-a-limbadi-accusa-di-omicidio-archiviata-per-lucia-di-grillo/
https://www.ilvibonese.it/cronaca/51006-autobomba-limbadi-accuse-archiviate-lucia-digrillo/